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È nullo il licenziamento del dirigente, motivato dalla soppressione della posizione lavorativa ricoperta, per violazione della norma dettata dall’art. 46 D.L. n. 18/2020, che vietava l’adozione di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo durante la crisi sanitaria da Covid 19; trattandosi di nullità virtuale secondo l’art. 1418 cod. civ. ad essa consegue la reintegrazione del dirigente nel posto di lavoro in applicazione dell’art. 18, comma 1, Stat. Lav.

Corte d’Appello di Roma, Terza Sezione Lavoro, 27 luglio 2022, n. 2712 – Pres. Nettis, Rel. Cosentino

L’art. 46 D.L. 17 marzo 2020, n. 18, precludeva l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo e vietava ai datori di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, di «recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604».


Si è presto posta la questione dell’applicabilità di questa normativa ai licenziamenti individuali dei dirigenti, che ha messo a confronto due tesi: quella della ricomprensione dei dirigenti nel blocco, fondata sulle finalità perseguite dal legislatore e confortata da una lettura costituzionalmente orientata, e quella dell’esclusione dal blocco, fondata sulla sottrazione dei dirigenti dall’ambito di applicazione del citato art. 3 e confortata sia dall’ordinaria libera recedibilità dal rapporto di lavoro dirigenziale e dalla riconosciuta costituzionalità di siffatto regime, sia dall’estraneità del rapporto dirigenziale alla copertura assicurata dai trattamenti di integrazione salariale: in mancanza di ammortizzatori sociali, la conservazione del posto al dirigente si sarebbe risolta in un costo per il datore di lavoro (considerazione tanto più rilevante dopo l’entrata in vigore dell’art. 14 D.L. 14 agosto 2020, n. 104, che, prorogando il blocco nei confronti dei datori di lavoro che non avessero integralmente fruito di siffatti trattamenti, evidenziava il legame tra blocco dei licenziamenti individuali e accesso agli ammortizzatori sociali emergenziali).

I fautori della prima tesi (tra essi: Trib. Napoli, Sez. Lav., est. Santulli, 16 luglio 2022, r.g. n. 6964/21; Trib. Roma, Sez. Lav., est. Pagliarini, 19 aprile 2021, n. 3605) ne affidavano la buona sorte anche al richiamo al principio di ragionevolezza, rilevando nell’opposta interpretazione una contraddizione intollerabile della normativa, la quale assicurava invece la protezione del dirigente in caso di licenziamento collettivo: sarebbe irragionevole ritenere – sostenevano, e sostengono – che il legislatore dell’emergenza abbia voluto proteggere in periodo pandemico l’occupazione del personale dirigenziale quando fosse stato coinvolto in riduzioni di personale e non invece quando fosse stato individualmente colpito dal recesso datoriale.


Secondo la ricostruzione che ne fa la sentenza della Corte di Appello di Roma 27 luglio 2022, n. 2712 in commento, un dirigente veniva licenziato nell’aprile del 2020 con la motivazione della «grandissima sofferenza economica e finanziaria, acuita dalle drammatiche conseguenze della pandemia Covid 19». In tale contesto, il datore di lavoro esponeva di avere avviato «un processo di riorganizzazione aziendale finalizzato alla progressiva integrazione ed ottimizzazione delle strutture operative, nell’ottica del contenimento dei costi e di una più utile gestione dell’impresa», nel cui ambito era addivenuto alla decisione di sopprimere la posizione lavorativa di «chief operating officer» ricoperta dall’interessato e di ridistribuirne le funzioni ed attività tra altri responsabili aziendali.

A prescindere da ogni altra considerazione sulla giustificatezza del recesso, negata dal dirigente nell’impugnativa, si è rivelata assorbente la questione dell’applicabilità al personale dirigenziale del blocco anti-Covid dei licenziamenti individuali.

I motivi della decisione
IL RINVIO ALL’ART. 3 L. N. 604/1966

La Corte capitolina contesta la fondatezza dell’argomento «principe» dei sostenitori della tesi dell’esclusione dei dirigenti dal blocco, secondo i quali il rinvio espresso operato dall’art. 46 al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966 chiarirebbe che il blocco non si applica al personale dirigenziale perché a questo non si applica la legge sui licenziamenti individuali: l’art. 10 della legge 604 ne limita, infatti, la sfera di efficacia soggettiva ai «prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio» (in forza della L. n. 190/1985, in mancanza di diversa previsione, ai quadri sono applicabili le norme relative agli impiegati).

Ad avviso del Collegio, il riferimento letterale, inserito subito dopo avere disciplinato il blocco dei licenziamenti collettivi ricomprendendovi i dirigenti, costituirebbe null’altro che la tecnica normativa prescelta per alludere alla disciplina dei licenziamenti individuali per motivazioni economiche; un modo per identificare la natura della ragione giustificatrice del recesso e non un modo per delimitare la platea soggettiva di applicazione del divieto, obiettivo che, se davvero perseguito, avrebbe potuto raggiungersi con indicazioni più chiare.

E, del resto, il richiamo cui si appellano i fautori dell’opposta interpretazione non è all’intera legge 604 ma al solo art. 3. Un richiamo, dunque, utilizzato esclusivamente per definire le ragioni poste a fondamento del recesso, a significare che soltanto il licenziamento per motivi tecnici, organizzativi o produttivi veniva vietato e non quelli motivati da una giusta causa o da un giustificato motivo soggettivo.

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