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È possibile apporre al patto di non concorrenza alcune clausole accessorie quali: il patto di opzione, il diritto di recesso e la clausola penale
Il patto di opzione, in base all’art. 1331 c.c., presuppone che una parte effettui una proposta vincolante irrevocabile che l’altra parte si riserva di accettare entro un dato termine.
L’opzione, applicata al patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c., attribuisce quindi al datore di lavoro un diritto potestativo in relazione alla conclusione del patto stesso, tenendo il lavoratore vincolato alla propria dichiarazione irrevocabile.
Con tale clausola, il patto di non concorrenza non produce effetto immediatamente all’atto della sua sottoscrizione, essendo l’efficacia condizionata ad una successiva dichiarazione del datore di lavoro da far pervenire entro un termine concordato.
La ratio di questo istituto, è evidente, è quella di consentire al datore di lavoro di differire, in un momento successivo alla stipulazione del patto di non concorrenza, la valutazione circa la convenienza di tale accordo.
Se la più risalente giurisprudenza aveva affermato una compatibilità tra la disciplina del patto di non concorrenza e quella del patto di opzione[1], le pronunce più recenti hanno sostenuto la nullità, per violazione dell’art. 2125 c.c., della clausola di opzione che preveda la facoltà del datore di lavoro di avvalersi del patto stesso successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro[2].
In particolare, secondo i giudici, il patto di opzione è applicabile al patto di non concorrenza solo qualora sia previsto l’esercizio della stessa entro un termine che renda definitivo il patto prima della cessazione del rapporto di lavoro.
Ed infatti, in mancanza di una siffatta predeterminazione temporale, si realizzerebbe “un’elusione dell’art. 2125 c.c. considerato che, dopo la risoluzione del rapporto, il lavoratore deve essere messo in condizione di effettuare scelte sicure tali da consentirgli di ricercare una nuova occupazione in piena libertà”[3].
Interessanti risultano due recenti pronunce della Suprema Corte, relative ad un patto di non concorrenza che prevedeva la possibilità per il datore di lavoro di comunicare al dipendente, entro un certo numero di giorni (30) dalla data di cessazione del rapporto, la volontà di rendere efficace il patto di non concorrenza.
La prima pronuncia[4] ha ribadito la nullità della relativa clausola, motivandola, da un lato, con la carenza di un espresso corrispettivo per il dipendente a fronte della concessione del diritto di opzione in favore del datore di lavoro e, dall’altro, con l’ingiustificato limite posto in capo al lavoratore di ricercare una nuova occupazione nei 30 giorni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro.
La seconda pronuncia[5], invece, ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale che individua il profilo di nullità della clausola nel fatto che la stessa preclude al dipendente di pianificare con certezza le proprie scelte lavorative una volta cessato il rapporto di lavoro.
Si tratterebbe, in ogni caso, di nullità parziale del patto di non concorrenza, in quanto “la nullità della clausola di recesso a favore del datore di lavoro non determina l’invalidità dell’intero patto di non concorrenza, salvo che non risulti che le parti non lo avrebbero concluso senza la suddetta clausola”[6].
Si segnala, tuttavia, un orientamento della giurisprudenza contrario a quello prevalente, che muove da una diversa qualificazione giuridica del patto di opzione.
In particolare, la Suprema Corte, con sentenza n. 25462 del 2017, ha precisato che: “l’opzione determina la nascita di un diritto a favore dell’opzionario che conclude automaticamente il contratto, soltanto nel caso in cui venga esercitata. Si tratta, quindi, di un diritto potestativo, poiché ad esso corrisponde, dal lato passivo, una posizione di soggezione, dato che, ad esclusi va iniziativa dell’opzionario, il concedente può subire la conclusione del contratto finale. Lo schema di perfezionamento non è quello della proposta-accettazione, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall’esercizio del suddetto diritto, mediante una dichiarazione unilaterale recettizia entro un termine fissato nel contratto stesso o, in mancanza, dal giudice. E, dunque, scaduto tale termine, l’opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta”. Tale orientamento è stato peraltro confermato dalla pronuncia n. 17542/2017 della Corte di Cassazione.

Il patto di opzione, in base all’art. 1331 c.c., presuppone che una parte effettui una proposta vincolante irrevocabile che l’altra parte si riserva di accettare entro un dato termine.
L’opzione, applicata al patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c., attribuisce quindi al datore di lavoro un diritto potestativo in relazione alla conclusione del patto stesso, tenendo il lavoratore vincolato alla propria dichiarazione irrevocabile.
Con tale clausola, il patto di non concorrenza non produce effetto immediatamente all’atto della sua sottoscrizione, essendo l’efficacia condizionata ad una successiva dichiarazione del datore di lavoro da far pervenire entro un termine concordato.
La ratio di questo istituto, è evidente, è quella di consentire al datore di lavoro di differire, in un momento successivo alla stipulazione del patto di non concorrenza, la valutazione circa la convenienza di tale accordo.
Se la più risalente giurisprudenza aveva affermato una compatibilità tra la disciplina del patto di non concorrenza e quella del patto di opzione[1], le pronunce più recenti hanno sostenuto la nullità, per violazione dell’art. 2125 c.c., della clausola di opzione che preveda la facoltà del datore di lavoro di avvalersi del patto stesso successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro[2].
In particolare, secondo i giudici, il patto di opzione è applicabile al patto di non concorrenza solo qualora sia previsto l’esercizio della stessa entro un termine che renda definitivo il patto prima della cessazione del rapporto di lavoro.
Ed infatti, in mancanza di una siffatta predeterminazione temporale, si realizzerebbe “un’elusione dell’art. 2125 c.c. considerato che, dopo la risoluzione del rapporto, il lavoratore deve essere messo in condizione di effettuare scelte sicure tali da consentirgli di ricercare una nuova occupazione in piena libertà”[3].
Interessanti risultano due recenti pronunce della Suprema Corte, relative ad un patto di non concorrenza che prevedeva la possibilità per il datore di lavoro di comunicare al dipendente, entro un certo numero di giorni (30) dalla data di cessazione del rapporto, la volontà di rendere efficace il patto di non concorrenza.
La prima pronuncia[4] ha ribadito la nullità della relativa clausola, motivandola, da un lato, con la carenza di un espresso corrispettivo per il dipendente a fronte della concessione del diritto di opzione in favore del datore di lavoro e, dall’altro, con l’ingiustificato limite posto in capo al lavoratore di ricercare una nuova occupazione nei 30 giorni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro.
La seconda pronuncia[5], invece, ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale che individua il profilo di nullità della clausola nel fatto che la stessa preclude al dipendente di pianificare con certezza le proprie scelte lavorative una volta cessato il rapporto di lavoro.
Si tratterebbe, in ogni caso, di nullità parziale del patto di non concorrenza, in quanto “la nullità della clausola di recesso a favore del datore di lavoro non determina l’invalidità dell’intero patto di non concorrenza, salvo che non risulti che le parti non lo avrebbero concluso senza la suddetta clausola”[6].
Si segnala, tuttavia, un orientamento della giurisprudenza contrario a quello prevalente, che muove da una diversa qualificazione giuridica del patto di opzione.
In particolare, la Suprema Corte, con sentenza n. 25462 del 2017, ha precisato che: “l’opzione determina la nascita di un diritto a favore dell’opzionario che conclude automaticamente il contratto, soltanto nel caso in cui venga esercitata. Si tratta, quindi, di un diritto potestativo, poiché ad esso corrisponde, dal lato passivo, una posizione di soggezione, dato che, ad esclusi va iniziativa dell’opzionario, il concedente può subire la conclusione del contratto finale. Lo schema di perfezionamento non è quello della proposta-accettazione, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall’esercizio del suddetto diritto, mediante una dichiarazione unilaterale recettizia entro un termine fissato nel contratto stesso o, in mancanza, dal giudice. E, dunque, scaduto tale termine, l’opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta”. Tale orientamento è stato peraltro confermato dalla pronuncia n. 17542/2017 della Corte di Cassazione.
In altre parole, secondo la Corte, “quando, al termine del rapporto di lavoro, il datore sceglie di non dare corso al patto di non concorrenza, liberando dai relativi divieti il lavoratore, si configura un’opzione e non un recesso unilaterale dal patto di concorrenza medesimo”. In base a quest’ultima interpretazione, quindi, il datore di lavoro sarebbe legittimato a comunicare la decisione di “attivare” il patto di non concorrenza anche in un momento successivo alla cessazione del rapporto di lavoro (purchè, chiaramente, il termine finale per tale comunicazione sia espressamente pattuito).
Questa intepretazione muove da una distinzione tra le nozione di opzione, ex art. 1331 c.c., e il diritto di recesso da un accordo già concluso. In sostanza, non potrebbe parlarsi di illegittimo recesso, tenuto conto che, in base allo schema dell’opzione, il contratto non può considersi concluso fino a quando il contraente che beneficia dell’opzione stessa non manifesta, entro il termine pattuito, la volontà di avvalersi del patto di non concorrenza.
Giova da ultimo segnalare una recente apertura registratasi nella giurisprudenza di merito, relativamente alla possibilità di condizionare il patto di non concorrenza all’esercizio del diritto di opzione.
La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 2 settembre 2019, aderendo alla ricostruzione dell’istituto sostenuto dalle citate pronunce n. 25462 e 17542 del 2017, ricorda infatti come “nella struttura tipica prevista dall’ordinamento, la parte vincolata all’opzione, ossia alla propria dichiarazione, non è tenuta alla prestazione contrattuale finale finché la controparte non accetta costituendo, quindi, il rapporto contrattuale finale”.
In altre parole, il diritto di opzione integrerebbe una fattispecie contrattuale a formazione progressiva, costituita da una proposta irrevocabile cui corrisponde non già un contratto perfetto condizionato, ma una mera facoltà di accettazione. Per tale ragione, il negozio non potrà che perfezionarsi (e spiegare i suoi effetti) nel momento in cui la parte manifesta la sua volontà di esercitare il suo diritto, e non prima.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha escluso che il diritto di opzione applicato al patto di non concorrenza debba ritenersi nullo in quanto comportante una illegittima compressione della libertà del dipendente sin dal momento della sua stipulazione.
Il diritto di recesso
La giurisprudenza si è altresì interrogata sulla legittimità di una clausola che consenta al datore di lavoro di recedere unilateralmente dal patto di non concorrenza.
A differenza del patto di opzione, tale clausola presuppone un accordo già perfezionato e non sospensivamente condizionato, che cessa i propri effetti in virtù di una comunicazione unilaterale di recesso.
Finalizzata anche in questo caso ad ampliare lo spatium deliberandi del datore di lavoro in merito alla convenienza del patto di non concorrenza, tale clausola è stata reputata dalla giurisprudenza nulla per contrasto con le norme imperative.
Sul punto, appare opportuno richiamare una specifica pronuncia della Suprema Corte[7] secondo cui “la libertà di recesso del datore di lavoro dal patto di non concorrenza, all’interno del limite temporale di vigenza del patto, […] alla data di cessazione del rapporto o per il periodo successivo deve ritenersi non consentita […]”[8].
Anche la giurisprudenza di merito ha confermato la nullità della clausola[9], sebbene sussista un minoritario orientamento difforme che ammette il diritto di recesso purché sia esercitato prima della cessazione del rapporto di lavoro[10].
La clausola penale
È frequente l’inclusione, nell’ambito del patto di non concorrenza, di una clausola penale volta alla predeterminazione convenzionale del risarcimento del danno da inadempimento.
L’importo della penale è, di regola, commisurato all’ampiezza e alla natura della limitazione posta a carico del lavoratore e il relativo obbligo di pagamento prescinde, ai sensi dell’art. 1382 c.c., dalla prova stessa del danno.
La penale, in ogni caso, non preclude al datore di lavoro di agire in giudizio per l’accertamento di eventuali danni ulteriori causati dalla violazione dell’obbligo di non concorrenza fermo, tuttavia, l’obbligo di provarne la quantificazione.
La penale può essere ovviamente ridotta dal giudice, ai sensi dell’art. 1384 c.c., qualora la stessa venga reputata manifestamente eccessiva.
In relazione ai parametri adottati dal giudice per la riduzione della penale, si richiama quanto statuito dalla sentenza n. 7835/2006, secondo cui: “Il criterio cui il giudice deve porre riferimento per esercitare il potere di riduzione della penale non è la valutazione della prestazione in sé astrattamente considerata, ma l’interesse che la parte ha, secondo le circostanze, all’adempimento della prestazione cui ha diritto, tenendosi conto delle ripercussioni dell’inadempimento sull’equilibrio delle prestazioni e della sua effettiva incidenza sulla situazione contrattuale concreta”[11].
La giurisprudenza ha peraltro negato il diritto alla riduzione della penale rivendicato da un dipendente che aveva proseguito nell’esercizio dell’attività vietata anche dopo l’inibitoria cautelare

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